Da sempre l’immaginario collettivo è abituato a vedere nell’ape un essere
mistico e metafisico, tanto che molto frequentemente la rappresentazione di
questo meraviglioso imenottero è associata a importanti figure religiose.
Risalendo indietro nel tempo, infatti,
ci si accorge come fu proprio, per primo, il teologo mussulmano al-Ghazali ad accostare
questo splendido insetto all’immagine di Dio. Egli, diede di esso la seguente
descrizione: “Guarda
le api! Dio ordinò loro di prendere le montagne a dimora e di estrarre dalla
loro saliva la cera e il miele, facendo lampada dell’una e guarigione
dell’altro. Poi, se mediti su ciò che di meraviglioso c’è nel loro ricorso ai
fiori, nella loro preservazione dalle impurità, nell’obbedienza a un capo che è
fisicamente più grande e che è il loro principe; non puoi non pensare a quale
giustizia ed equità Dio mette in quel principe, al punto che esso sopprime,
all’entrata dell’alveare, tutte le api che si siano posate sull’impurità. Non
potrai così che restare fortemente meravigliato da tutto ciò”.
Nella descrizione del Paradiso data sia
dalla religione ebraica sia da quella cattolica (terra promessa) che da quella
mussulmana (attraverso il Corano) vi è sempre riportata la presenza, in esso,
di fiumi di miele che scorrono accanto ad altri di latte, di olio e/o di vino.
L’ape in seguito venne anche associata alla figura dei Santi, infatti, la
leggenda dice che il piccolo Ambrogio (santo protettore delle nostre api),
ancora lattante, mentre dormiva fu avvolto da uno sciame d’api che si posò sul
suo volto e i numerosi insetti entravano e uscivano dalla sua bocca socchiusa
depositando, all’interno di essa, del prezioso miele come testimonianza della
sua grande futura saggezza.
Nel tempo questo animale divenne anche un
qualcosa di contemplativo al quale ci si avvicinava per cercare di rapportare
la realtà terrena e quella spirituale, grazie a ciò, sempre con maggior
frequenza, esso riuscì a entrare nella vita e nelle attività monastiche. Molte
infatti, sono le figure di religiosi che si dedicarono ad allevare api, basti
pensare a Gregor
Johann Mendel, frate agostiniano dell’Abbazia di San Tommaso a Brno, precursore
della moderna genetica: proprio grazie
ai suoi importanti studi sui caratteri ereditari che ancora oggi si utilizzano
le sue leggi per ottenere la selezione della genetica delle api; Lorenzo
Langstroth, pastore protestante evangelico americano, fu l’inventore del primo
modello di arnia a quadro rimovibile; Johann Dzierzon, un sacerdote, studiò la vita sociale
delle api e costruì diversi alveari sperimentali tanto che nel 1838 ideò il primo pratico alveare
mobile con il quale fu resa possibile la manipolazione dei singoli favi senza
che essi venissero distrutti. Nel 1835, poi, scoprì che i fuchi erano
prodotti da uova non fecondate. I suoi risultati causarono una rivoluzione
negli studi di genetica sugli incroci delle api. L’abbate Emile Warré ha
progettato e costruito un alveare che fosse il più prossimo
possibile alle condizioni di vita naturali delle colonie d’api, pubblicando
altresì diversi libri sull’apicoltura tra cui: “L’apicoltura per tutti” in cui
descrive le caratteristiche del suo alveare e spiega come questo sia in grado
di mettere chiunque nella condizione di poter allevare api. Karl Kehrlé, nato in
Germania, una volta presi i voti si trasferisce all’Abbazia Benedettina di
Buckfast, in Inghilterra, e nella sua nuova vita monastica prenderà il nome di
Padre Adams dedicando la gran parte della sua esistenza alla selezione di una
nuova razza d’ape nella quale egli ricercò, attraverso diversi incroci, le
seguenti caratteristiche: un buon temperamento, una bassa propensione alla sciamatura e
un’ottima laboriosità.
Il caso vuole, sempre per restare in tema di api e misticità,
che la mia professione di medico mi portò a conoscere la signora Rosa, una
paziente allora di 80 anni, che giunse in ospedale, alla mia osservazione, a
causa di una brutta frattura di polso. La scomposizione era al limite del
chirurgico ma l’età della paziente, anche se si trattava di una persona in
ottima forma fisica, mi rendeva perplesso sulla necessità di portarla in sala
operatoria per sottoporla ad intervento. Vista la mia titubanza, la signora
Rosa ad un certo punto della visita, con tono anche un po’ indispettito,
esclamò: “ Guardi dottore che io ho bisogno di recuperare la mia manualità poiché
gestisco l’apiario nell’azienda agricola di famiglia”. A quel punto, anche per
solidarietà fra apicoltori, non ebbi più alcuna esitazione e decisi di ridurre
chirurgicamente la frattura per garantirle una migliore e più precoce ripresa
della sua attività funzionale. E’ proprio grazie a questo evento che conobbi
Giuditta, sua nipote, alla quale la zia sta trasmettendo tutta la sua
esperienza e il suo sapere apistico affinché possa un domani proseguire la
preziosa attività di famiglia. Un giorno, Giuditta mi chiamò dicendomi che una
sua conoscente suora avrebbe avuto piacere di ospitare delle colonie d’api
all’interno del grande parco del convento da lei diretto, convento che funge da
casa di riposo per altre anziane consorelle. La casa si trova nel comune di Barzanò, un
paese incantato contornato dal verde di una dolce Brianza Lecchese, disperso
fra le affascinanti sinuosità di tenere colline che avvolgono il lento scorrere
d’acqua dei fiumi Adda e Lambro. Dai suoi confini si gode un panorama
suggestivo che spazia dal San Genesio al Resegone, dalle Grigne ai Corni di
Canzo in un turbinio di sensazioni che ti proiettano verso la catena delle Alpi
dominata a nord est dal monte Rosa, fino all’immensa pianura lombarda che ti
saluta nel suo lento protendersi in direzione degli Appennini. Senza alcuna
esitazione, decisi di portare in dono a Suor Chiara due delle mie famiglie
preparate a inizio primavera. Non appena giunto al convento conobbi questa
affascinante persona e proprio grazie alla sua dolcezza, addomesticata da quel
non so che di onesta sincerità, capii subito, senza alcuna ombra di dubbio, che
le mie api avevano raggiunto il posto migliore che mai avesse potuto
attenderle: quel limbo di terra che segna il sottile confine fra la sacralità
della vita umana e la misticità della vita celeste!
Così una volta sistemati i due alveari e dato un’ultima
occhiata a quel nuovo e meraviglioso parco, che da ora in poi le avrebbe ospitate, aprii le porticine
delle casette quindi, con celeste serenità, alzai lo sguardo verso l’alto per
osservare un’ultima volta le mie compagne di viaggio e di lavoro volteggiare
come tante virgole alate nell’azzurro del cielo di questo nuovo e paradisiaco
“eden”. Esse, probabilmente, dal profondo della loro saggezza, con il loro
incantevole volo mi stavano indicando la strada da percorrere per raggiungere
quella sottile linea di confine che segna il limite fra il nostro umano sapere
e la divina saggezza.
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